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Lateral: tre fratelli, tre continenti - i Bee Gees (parte 2)

Barry, Robin, Maurice (e Andy) Gibb: sei decenni di musica
Lateral: tre fratelli, tre continenti - i Bee Gees (parte 2)

Questa è la storia di tre fratelli (più uno) che hanno attraversato sei decenni di musica collezionando record e cadute. 220 milioni di dischi venduti, nove volte al numero uno delle classifiche americane (più di loro solo Beatles e Supremes), l’unico gruppo nella storia della musica capace di arrivare in vetta alle classifiche in quattro decadi consecutive. Barry, Robin, Maurice (+ Andy) si sono mossi tra trionfi e piccole e grandi tragedie con una naïveté e una leggerezza incosciente: scelte discutibili, copertine imbarazzanti, eppure tante melodie indimenticabili. Adorati e derisi, vittime sacrificali della Disco Demolition Night, frequentatori delle terre desolate dell’easy listening, protagonisti inconsapevoli di appropriazioni culturali, i Bee Gees sono stati per un breve periodo lo specchio più luminoso — e fragile — dello spirito del tempo. Un racconto di periferie newyorkesi li ha portati in cima al mondo, ma il prezzo del paradiso è stato alto. E l’iper successo non è mai stato del tutto perdonato, nonostante la penna di uno dei più grandi songwriter della storia pop. Qui una playlist per accompagnare il racconto con la musica.

 

Seconda parte (qui la prima parte)

 

Nel giugno del 1976, il "New York Magazine" pubblica un’inchiesta firmata da Nik Cohn, giornalista inglese trapiantato in America. Racconta la storia di Vincent, ragazzo italoamericano di Brooklyn: camicie a fiori, pantaloni troppo stretti, che il sabato sera si trasforma, balla all’Odyssey 2001 e si sente finalmente vivo. Più tardi, Cohn confesserà di essersi inventato quasi tutto, ma riesce comunque a catturare l’essenza dello stile disco suburbano di metà anni ’70. Robert Stigwood, che oltre a gestire i Bee Gees è un produttore ambizioso e con buon fiuto per i fenomeni, acquista i diritti e inizia a immaginare un film. Il titolo provvisorio è "Saturday Night". Per il ruolo principale pensa a John Travolta, che ha visto anni prima durante un provino per "Jesus Christ Superstar". Travolta diventa Tony Manero. Il film ha un budget ridottissimo, appena 3,5 milioni di dollari — poco persino per gli standard degli anni ’70. Il regista John Badham sfrutta al massimo Brooklyn: gira tra Bay Ridge, Sunset Park e Bensonhurst, con scene anche al White Castle e alla Phillips Dance Studio. Tony Manero lavora in un negozio di ferramenta su Fifth Avenue e si ritrova con gli amici da Lenny’s Pizza sulla 86ª. È Brooklyn allo stato puro, come il ponte di Verrazzano che fa da sfondo.

I Bee Gees, intanto, sono in Francia, chiusi a Le Château Studio, dove pochi mesi prima erano passati David Bowie, Brian Eno e Iggy Pop per registrare “Low” e “The Idiot”. I tre fratelli stanno lavorando a nuovi brani e mixando un disco live. Quando Stigwood li chiama, racconta loro l’idea del film: un ragazzo che di giorno vende vernici e di sera balla. All’inizio non sembra interessare a nessuno, ma Barry risponde che, per caso, qualche pezzo nuovo ce l'hanno. Non hanno letto la sceneggiatura. Non conoscono davvero la trama. Stanno solo scrivendo canzoni —  “Night Fever”, “More Than a Woman”, “If I Can’t Have You” e “How Deep Is Your Love — e non sanno ancora che diventeranno la colonna sonora di un’intera epoca. Stigwood chiede un'altra canzone che alterni sezioni veloci e lente. Nasce così "Stayin' Alive", probabilmente la canzone più famosa dei Bee Gees.

Intanto le riprese continuano. Travolta balla su una colonna sonora provvisoria, a base di Boz Scaggs e Stevie Wonder. I brani dei Bee Gees arriveranno solo dopo, in fase di montaggio. Il titolo cambia, e il film diventa "Saturday Night Fever". La musica prende il posto del racconto, diventa essa stessa narrazione, riassumendo lo spirito del film. Quando vedono il film per la prima volta, i Gibb notano che si sentono solo i passi dei ballerini. Stigwood alza il volume. Le scene si accendono. Travolta sembra non aver ballato altro, nella vita, se non le loro canzoni.

Quando la colonna sonora di "Saturday Night Fever" esce, il 15 novembre del 1977, il primo singolo dei Bee Gees è già in volo verso la vetta delle classifiche americane. “How Deep Is Your Love” arriva al numero uno a dicembre, “Stayin’ Alive” lo raggiunge a febbraio, tallonata da “(Love is) Thicker Than Water”, il brano del quarto fratello Andy. A marzo tocca a “Night Fever”. A maggio, è la volta di “If I Can’t Have You”, nella versione di Yvonne Elliman. A giugno, “Shadow Dancing”, ancora con Andy Gibb alla voce e Barry a comporre, completa la corsa. Sei mesi, sei numeri uno.

Per una settimana, nell'aprile del 1964, i primi cinque singoli della Billboard Hot 100 erano stati tutti dei Beatles. Questa rimane l'unica volta in cui un singolo artista ha occupato l'intera top five, e probabilmente non accadrà mai più. Nel marzo del ’78, qualcosa di simile accade di nuovo: quattro delle prime cinque posizioni sono occupate da canzoni scritte o cantate dai fratelli Gibb. Nessuno c’era mai riuscito prima. La stessa settimana, i tre fratelli sono accolti a New York da un cartellone in cima a Times Square. Grida in maiuscolo: “BEE GEES HAVE THE #1 SINGLE AND #1 ALBUM IN BILLBOARD, CASHBOX AND RECORD WORLD. CONGRATULATIONS! 5 HITS IN THE TOP 10!”. È il loro punto più alto nell’industria della musica.

Quello che i Bee Gees raggiungono con le canzoni di “Saturday Night Fever” non è solo il culmine melodico dei tre fratelli, ma un vero capolavoro di arrangiamenti studiati al millimetro, oscillando tra semplicità e perfezione assoluta. Gli arrangiamenti sono asciutti, essenziali, quasi rituali. Ogni elemento trova il suo spazio con grazia: la chitarra funky di Alan Kendall, limpida e riconoscibile fin dalle prime battute, incornicia le tracce con eleganza; le tastiere di Blue Weaver sono sempre più fondamentali — è lui a evocare l’intro orchestrale di “Night Fever” suonando un mix nostalgico tra flusso sintetico e atmosfera da “Theme from A Summer Place”; la sezione ritmica pulsa asciutta e naturale, frutto del dialogo vivido tra Maurice, Dennis Bryon e l’ingegno tecnico di Galuten e Richardson che lavorano ai nastri creando il primo drum loop di sempre per “Stayin’ Alive.” In studio la band sperimenta e perfeziona: “How Deep Is Your Love” nasce da un laboratorio armonico al pianoforte tra Barry e Blue, con arrangiamenti di archi che emergono come gemme nel mix. I testi, spesso scarni e astratti, trasmettono dolcezza mista a inquietudine. È davvero la notte in discoteca, l’aria notturna della città, il momento di abbandono totale in cui la musica diventa vita.

L’album doppio con tutta la colonna vende quasi un milione di copie prima ancora che si accendano i riflettori sul film, per poi arrivare in vetta alle classifiche di mezzo mondo: Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Italia, Giappone, Svezia. E lì rimane. Più di 40 milioni di copie, 24 settimane al primo posto in America, due anni interi nelle classifiche. In Inghilterra, diciotto settimane di fila in cima. È il disco di una stagione che sembra eterna, e che porta con sé anche Tavares, Kool and the Gang, KC and the Sunshine Band. Ma il motore sono loro, i fratelli Gibb, che raccolgono Grammy su Grammy: disco dell’anno, produzione dell’anno, miglior performance vocale con “How Deep Is Your Love”. Nel mondo si ascolta musica disco senza vergognarsi. I grandi del rock, primi tra tutti gli Stones con “Miss You”, ne prendono a prestito ritmi e giri di basso. Michael Jackson si innamora del groove profondo e delle armonie vellutate di “More Than a Woman” e ne porta l’influenza con sé fino al 1982 quando pubblicherà “Thriller”. In Italia, “Stayin’ Alive” e “Figli delle stelle” di Alan Sorrenti si scambiano il primo posto in classifica. Per un momento, la leggerezza sembra la cosa più seria del mondo.

 

Il quarto fratello

Nel frattempo, dall’Australia è arrivato il quarto fratello, Andy, il più giovane, il più bello, ma anche il più vulnerabile. Una carriera iniziata da giovanissimo, ma che decolla solo quando Barry lo porta a Miami. Con il supporto fraterno e la produzione di Barry, Albhy Galuten e Karl Richardson, Andy pubblica “Flowing Rivers” nel 1977: i singoli “I Just Want to Be Your Everything” e “(Love Is) Thicker Than Water” conquistano la vetta della Billboard Hot 100. Dal trionfo emerge un ragazzo dolce, amato, idolatrato: icona per teen e protagonista di copertine. Ma dentro c'è un’altra storia. La sua voce, tenue e appena sfiorata dal falsetto dei Bee Gees, fatica a trovare un’identità autonoma. Dietro ogni successo, cresce un vuoto: insicurezze, la sensazione di non essere mai all’altezza dei fratelli, e un contrasto interno tra l'affetto paterno e il bisogno di conferme. Il successo si intreccia alle relazioni: il matrimonio con Kim in Australia, l’amore turbolento con Victoria Principal, e tante altre storie sotto i riflettori, fragili e complesse. Nel frattempo, l’alcol e la cocaina entrano nella sua vita.

 

È ancora cinema

È un momento in cui tutto quello che Barry Gibb tocca diventa un numero uno. Non è solo prolificità, c’è una generosità disarmante, quasi un’urgenza nel regalare pezzi d’oro a vecchi amici o idoli dell’adolescenza. Così quando arriva “Grease”, commissionata quasi per caso da un preoccupato Robert Stigwood, ansioso di replicare il colpo di "Saturday Night Fever", Barry scrive di nuovo il brano senza leggere la sceneggiatura, senza vedere un fotogramma. Il risultato è sorprendente: niente zucchero, niente nostalgia artificiale, ma un testo amaro, attraversato da domande senza risposta — “This is a life of illusion, wrapped up in trouble, laced with confusion. What are we doing here?”. Il demo con la voce di Barry Gibb arriva in sala montaggio: una cassetta, voce e piano, bassa qualità. Il regista non è impressionato, ma accetta di inserirla. Alla fine, la canterà Frankie Valli senza quasi mai utilizzare il falsetto che un tempo lo aveva reso leggenda, forse per rispetto, forse per riconoscere che adesso il re è un altro. Barry è con lui in studio, paziente e partecipe. Il film non ha davvero bisogno di un’altra canzone. Ma la canzone, quella canzone, cambia l’apertura creando un corto circuito: la musica parla di disincanto - una sorta di Chic rilassati con i fiati degli Earth Wind & Fire - mentre sullo schermo scorrono immagini pop, anni ’50 disegnate come cartoni. “Grease is the word”, scrive Barry, e sembra crederci. Anche quando nessuno che sta lavorando al film capisce davvero cosa intenda.

È nel momento in cui tutto sembra possibile che arriva "Sgt. Pepper". Un musical senza dialoghi sui Beatles, con una storia che non regge e i Bee Gees nei panni dei fratelli Henderson. Peter Frampton, Alice Cooper, Aerosmith, Earth, Wind & Fire: tutti dentro, come a una festa che si è già rovinata prima che arrivi il dolce. Il film esce a luglio del ’78, entra in sala in punta di piedi e ne esce nello stesso modo, camminando all’indietro. Non fa ridere, non commuove, non è nemmeno kitsch nel senso giusto. Le canzoni dei Beatles sembrano svuotate, rimesse in scena con grande fatica e poco senso. Non c’è ironia, non c’è cuore. Nemmeno oggi, con tutta la nostalgia possibile, trova una seconda vita. È troppo brutto per diventare culto e non ha mai meritato una rivalutazione postuma. Robin dice che dopo quel film i ragazzi dimenticheranno i Beatles. Ma a essere dimenticato, alla fine, è solo il film.

Nulla però sembra scalfire la fiducia dei tre fratelli Gibb, capaci di scrivere nello spazio di due ore in un pomeriggio di pausa delle riprese del film tre futuri numeri uno, con “Too Much Heaven”, “Tragedy” e “Shadow Dancing”.

Il 1978 volge al termine ed è tempo di bilanci. I Bee Gees hanno stabilito una serie di record che li rendono, per un momento, il gruppo dominante nella storia della musica pop. Tra marzo e aprile hanno piazzato tre brani al numero uno della Billboard Hot 100 in sequenza: “Stayin’ Alive”, “Night Fever” e “If I Can’t Have You” (scritta per Yvonne Elliman). Per cinque settimane, tra marzo e aprile, hanno occupato contemporaneamente quattro delle prime cinque posizioni della classifica americana, e in una di queste settimane sono stati presenti in sei delle prime dieci. Barry Gibb è diventato il primo autore nella storia a firmare sei singoli consecutivi arrivati al numero uno della Hot 100, tra canzoni sue e brani scritti per altri. In pratica, per più di sei mesi, la vetta della classifica americana è stata quasi esclusivamente occupata dalla loro musica. Agli altri artisti sono rimaste meno di 25 settimane in tutto l’anno per raggiungerla o restare in cima. I fratelli hanno già avuto successo in passato, ma mai di queste proporzioni. Forse è proprio per questo che Barry rivela tutta la sua preoccupazione per il nuovo disco quando viene intervistato nel dicembre 1978. Anche se tutte le canzoni sono già pronte, insieme a tre nuovi numeri uno, e il loro tour mondiale dell’anno successivo già organizzato.

 

Spiriti in volo

“Spirits Having Flown”, iniziato nel marzo del ’78 e pubblicato all’inizio del ’79, è la risposta ai dubbi del capofamiglia. Barry, Karl e Albhy – i nuovi tre fratelli - lavorano ogni giorno, dal pomeriggio a mezzanotte, inseguendo un suono che tenga insieme ambizione e perfezione. Manca la freschezza febbrile di "Saturday Night Fever", ma restano intatti la qualità della scrittura, l’eleganza degli arrangiamenti, il controllo.

Debutta al primo posto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, accolto da un’intera pagina su Billboard firmata Stigwood. La critica ne riconosce la raffinatezza: un pop sofisticato, tra Motown e ABBA, ma più adulto, più stratificato. La disco affiora solo in un brano, ma non basta a ripulire la fedina penale della band: intorno, il vento è cambiato, e il genere comincia a mostrare crepe. Tre singoli – “Too Much Heaven” con i proventi interamente devoluti all’UNICEF, “Tragedy”, “Love You Inside Out” – arrivano in vetta, ma l’album ne avrebbe avuti almeno altri cinque. La febbre è passata, resta una scrittura limpida, distillata a freddo, tra mestiere e magia. Robin e Maurice quasi spariscono dalle sessioni, ma il risultato è il miglior disco pubblicato con il nome della ditta.

Uno scarto di “Spirits Having Flown” finisce per diventare il nuovo successo di Andy Gibb. Si chiama “Desire, e nasce come una traccia dei Bee Gees, registrata nel ’78 ma lasciata fuori dall’album. Quando Andy cerca materiale per l’ennesimo rilancio, Barry gliela consegna praticamente finita, al punto che non si capisce davvero chi canti i versi. Nell’inciso si intrecciano le voci di tutti e quattro i fratelli: è la prima, ma anche l’ultima volta. Andy Gibb si allontanerà progressivamente dalla musica, ostacolato da problemi personali e di salute. Morirà nel 1988 per una miocardite, poco dopo aver compiuto trent’anni. Il fratello più giovane, la piccola ombra di Barry, quello che seguiva e rispecchiava ogni mossa del fratello maggiore, è anche il primo ad andarsene.

Il tour del 1979 è un’accelerazione continua: cinquantacinque date in tre mesi, tutte sold out, con platee da 25.000 persone a sera. La band vola su un Boeing 720 privato, nero, con il logo "Spirits Having Flown" ben visibile, e dorme unicamente negli stessi cinque hotel per tutto il tour, con rientri veloci dopo ogni show. Il palco riproduce la pista da ballo di "Saturday Night Fever", un richiamo visivo che lega ogni concerto al loro mito più grande.  Non mancano gli amici: a Houston, John Travolta si unisce sul palco, mentre a Los Angeles, tra gli ospiti dietro le quinte ci sono Harry ‘KC’ Casey, Michael Jackson, Karen Carpenter, Olivia Newton-John e Barbra Streisand. Il Madison Square Garden ospita cinque concerti sold out, confermando il loro dominio assoluto, con fuochi d’artificio e specchi rotanti a chiudere ogni serata.

Il 13 luglio 1979, i Bee Gees suonano all’Oakland-Alameda County Coliseum. Sarebbero state sufficienti solo poche ore di volo per passare il giorno prima dal Comiskey Park, lo stadio dei White Sox a Chicago e assistere in diretta al loro funerale.  

Nell’estate del 1979, la disco è davvero ovunque. In radio, in classifica, nei film, nei jingle pubblicitari. Più del 40% della musica americana suona così: ritmi quadrati, bassi pulsanti, falsetti levigati. Ma il trionfo nasconde un nervo scoperto. A Chicago, un giovane deejay di nome Steve Dahl guida la rivolta. Dice che il rock è stato esiliato, che bisogna riprendersi lo spazio perduto. Il 12 luglio, allo stadio dei White Sox, organizza la “Disco Demolition Night”: migliaia di fan portano vinili da distruggere. Una cassa piena ne contiene 50.000. Alla fine del primo match, la fanno saltare in aria. Il campo è invaso, la partita viene annullata. Il giorno dopo, la radio disco della città manda in loop “Last Dance” di Donna Summer per ventiquattro ore. Poi cambia format, e dichiara la fine della disco. È solo l’inizio. In pochi mesi, centinaia di emittenti fanno lo stesso. È una rivolta culturale prima che musicale. Contro i suoni, ma anche contro i corpi. Troppo neri, troppo queer, troppo liberi. Un rigetto istintivo, maschile, bianco. Eppure, qualcosa di vero c’è: la musica disco sta diventando formula, imitazione di sé stessa. Persino tra gli artisti che l’hanno inventata, molti cominciano a voltarsi altrove.

Bee Gees e Chic, simboli di quell’epoca, si ritrovano improvvisamente fuori moda. I loro falsetti, le camicie di raso e gli arrangiamenti scintillanti non si adattano più all’immagine di “mascolinità” che il contro-movimento pretende. È l’inizio di una fase di declino, un lento uscire di scena da un mondo che hanno dominato, travolti dal cambio di gusti e dall’ostilità del pubblico. La fine dell’era in cui sono stati insuperabili.

 

Post sbornia

Finita la parabola fulminante, Barry Gibb non si perde d’animo: si reinventa come autore e produttore per altri, aprendo una nuova fase della carriera che ne conferma l’inventiva e la capacità di restare al passo con i tempi. Il primo banco di prova è l’album di Andy “After Dark” – scritto e prodotto, e forse anche cantato, da Barry, con la “Rest Your Love On Me” cantata con Olivia Newton John -, scritto in contemporanea ai pezzi della collaborazione con Barbra Streisand, per “Guilty. Barry compone le canzoni in una settimana – compresa la “Carried Away” che la Streisand scarta e sarà incisa l’anno successivo da Olivia Newton-John - e gli ci vogliono solo alcuni giorni in più per realizzare i demo. L’album vola al numero uno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – con “Woman In Love” in testa alla classifica dei singoli – e segna un punto di svolta per entrambi, fondendo sofisticatezza pop con arrangiamenti di grande classe. La produzione di Barry si fa ancora più elaborata, più ricca di dettagli, frutto di un lavoro meticoloso con alcuni dei turnisti più richiesti degli Stati Uniti: Steve Gadd, Lee Ritenour, Richard Tee tra gli altri. Le melodie restano immediatamente riconoscibili, orecchiabili, ma nascondono una complessità armonica raffinata e riportano Robin Gibb alla composizione dopo un periodo di relativa distanza dalla scrittura. Un paio di anni dopo Barry firma “Heartbreaker” per Dionne Warwick, il secondo di una serie di lavori per grandi interpreti femminili, tra cui Diana Ross. Il percorso di Barry come produttore si incrocia idealmente con quello di Nile Rodgers e Bernard Edwards degli Chic, che nello stesso periodo privilegiano collaborazioni con grandi artiste femminili come Diana Ross e Carly Simon, in un sapiente intreccio di funk, pop e soul per creare hit durature e resistenti all’usura del tempo.

Nel 1985 è tempo anche per l’irresistibile “Islands in the Stream”, un pastiche pop-country scritto da Barry per Kenny Rogers e Dolly Parton.

Tra tutti questi successi scritti e prodotti per altri, nel 1981 i Bee Gees trovano il tempo per un ritorno a proprio nome con “Living Eyes”. La band che aveva segnato i cinque anni precedenti viene congedata per continuare con i session men che avevano lavorato nelle produzioni per la Streisand e per la Warwick. I Bee Gees si allontanano dal falsetto e dalle piste da ballo per abbracciare un pop più sofisticato, riflessivo, dove le chitarre acustiche e i grandi session men americani prendono il posto di sintetizzatori e drum machine. È, in fondo, un album di guarigione: non un ritorno alle classifiche, piuttosto un tentativo di ricomporsi come gruppo. Ma il clima è cambiato: è l’anno in cui esplode il synth pop, e “Living Eyes” suona irrimediabilmente fuori tempo. Il disco viene ignorato dal pubblico e boicottato dalle radio americane, ancora sotto l’effetto del backlash anti-disco. Non bastano l’eccellente qualità del songwriting né il fatto di essere il primo album della storia stampato in formato CD.

Dopo “Living Eyes”, i Bee Gees si prendono una lunga pausa come gruppo, ma non smettono mai davvero. Barry scrive e produce, Robin prova a rilanciarsi da solista, Maurice si dedica alla produzione. Si fanno coinvolgere in uno sciagurato sequel di “Saturday Night Fever”, lo “Staying Alive” diretto da Silvester Stallone, a cui regalano alcune canzoni per la colonna sonora, tra cui la splendida “Someone Is Belonging To Someone”, un’altra delle melodie lunghe di Barry, con la batteria di Steve Gadd e lo splendido Fender Rhodes di Richard Tee. Tornano insieme nel 1987 con “You Win Again”, che li riporta al numero uno nel Regno Unito: è il quarto decennio cinsecutivo in cima alle classifiche. Seguono nuovi album, tour, documentari. La loro immagine cambia: non più icone pop, ma autori rispettati, con una storia da raccontare.

 

Epilogo

Barry resta l’ultimo. Vive ancora a Miami, in una villa affacciata sull’oceano, dentro un country club esclusivo. Da oltre cinquant’anni con Linda, la donna che gli ha evitato di perdersi. Gli altri fratelli non ce l’hanno fatta. Andy, il più giovane, travolto da un successo arrivato troppo in fretta, è morto a trent’anni per complicazioni legate alla cocaina. Maurice beveva troppo, almeno fino alla riabilitazione degli anni Novanta. È scomparso nel 2003 per complicazioni derivanti da una malformazione all’intestino, ponendo fine alle vicende del gruppo. Robin non ha mai smesso con le anfetamine ed è scomparso nel 2013 per un cancro. Barry si è salvato. Fa ancora dischi, due apparizioni a Glastonbury e cura la legacy della famiglia.

Con più di 220 milioni di dischi venduti, i Bee Gees hanno attraversato quattro decenni in classifica, firmato venti singoli da Top 10 solo negli Stati Uniti, scritto e prodotto decine di successi per altri artisti, lasciando un’impronta incancellabile nella musica pop. A ricordarlo ci sono documentari, tributi, intere generazioni di musicisti che ancora oggi li citano tra le influenze: da Justin Timberlake a Noel Gallagher, da Mark Ronson a Chris Martin. Negli anni ’90 il loro catalogo è stato addirittura messo al servizio di boy band che avevano bisogno di attingere al talento da qualche parte.

In tutto questo, sono stati a lungo fuori sintonia con il loro tempo, capaci di scelte naïf, ma sempre in pace con la loro musica e con il successo che andava e veniva. Veramente diversi da tutti. In una delle sue interviste più dolci e disarmate, Barry ha confessato pochi anni fa che quando si guarda allo specchio abbassa le luci per immaginare qualche capello in più ed essere ancora quello che, in camicia di seta e pantaloni attillati, cantava “Stayin’ Alive”. “You know it's alright, it's okay. I'll live to see another day”.

 

 

 

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